Relatio Subsistens.
Ontologia delle relazioni e filosofia analitica della religione
Guido Bonino. Le relazioni nell'idealismo britannico.
La nozione di relazione ha rivestito un ruolo centrale nei principali filosofi dell’idealismo britannico. Si prenderanno qui in considerazione T.H. Green, F.H. Bradley e Bernard Bosanquet. Per Green, che si ispira in parte a Kant e in parte a Hegel, ma che probabilmente è influenzato anche da Lotze, l’ineliminabilità delle relazioni, e l’impossibilità di spiegarle, se non come prodotto dell’attività di una mente o di un’entità simile a una mente, costituiscono le due premesse di un argomento a favore dell’idealismo. Per Bradley il ruolo delle relazioni rimane approssimativamente lo stesso quando si parla dell’attività del “pensiero”, ma il pensiero non può in ultima analisi cogliere la realtà; al di sotto e al di sopra del pensiero – per così dire – si colloca il feeling, e la realtà colta dal feeling è radicalmente non-relazionale, in quanto le relazioni comportano contraddizioni. In questo senso Bradley risulta uno dei maggiori critici della nozione di relazione. Bosanquet, che rispetto a Bradley professa un hegelismo più ortodosso, si concentra invece sul ruolo costitutivo delle relazioni che si esplica nei processi di pensiero.
Agostino Cera. Antropologia della relazione. La Mitanthropologie di Karl Löwith.
Il presente contributo illustra la tappa di un percorso di ricerca pluriennale: l’interpretazione del pensiero di Karl Löwith sub specie anthropologica, ovvero come sviluppo da un’antropologia antropocentrica ad un’antropologia cosmocentrica. Questa tappa consta della definizione di un paradigma antropologico-relazionale inedito, qui denominato Mitanthropologie, inferibile dalle pagine della Habilitationsschrift löwithiana: Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen (1928). In particolare, si tratterà di portare a compimento ciò che Löwith si è limitato a delineare: un tentativo di ontologia della relazione integralmente antropologica.
Marco Damonte. Costituent vs relational ontologies: quale strategia di ricerca per la teologia razionale?
La comprensione adeguata della domanda che costituisce il titolo del presente intervento richiede una doppia contestualizzazione, metodologica e storica, che verrà offerta nella prima parte. Da un punto di vista metodologico, si tratta di puntualizzare gli oggetti di quelle discipline che in ambito analitico sono definite metafisica, ontologia, teologia razionale e filosofia della religione. Sotto il profilo storico vanno indagate le principali tappe che hanno portato all’uso degli strumenti offerti dall’ontologia, meglio dalle ontologie, nel campo della teologia razionale. Dopo aver richiamato le distinzioni tra metafisiche “revisioniste e descrittive” (Strawson 1959, ripreso da Geach 1991), “fondazionaliste e dinamiche” (Kenny, 1995, seguendo una suggestione wittgensteiniana) e “cattive e buone” (Kenny 2007), verranno richiamati i decisivi passaggi che, dalle posizioni neopositiviste ostili alla metafisica e alla teologia naturale, hanno portato verso un metodo essenzialista in filosofia del linguaggio e, infine, a una filosofia della religione di stampo essenzialista (Smith 1997), inaugurata da Alvin Plantinga (1974).
Nella seconda parte si prenderanno in considerazione i principali testi che hanno determinato il dibattito circa le constituent e le relational ontologies. Tale terminologia fu coniata da G. Bergmann (1967), ripresa da Nicholas Wolterstorff (1970) e implicitamente usata in ambito di teologia razionale da Alvin Plantinga, nel libro Does God Have a Nature? (1980). Le scelte ontologiche diventano determinanti nello stabilire la natura di Dio e la modalità con cui attribuirgli delle caratteristiche (Wierenga 1989; Hughes 1989; Wolterstorff 1991; Swinburne 1994; Oppy 2014). La distinzione tra constituent e relational ontologies si configura oggi come una questione dibattuta tra gli ontologi analitici all’interno di una terminologia molto tecnica e specializzata (van Inwagen 2011).
La conclusione avrà come esito una risposta negativa all’interrogativo proposto nel titolo, ma verranno suggerite altre strategie che rendono l’ontologia analitica fruibile alla teologia razionale. In particolare verrà suggerito di prestare attenzione agli studi storici circa l’ontologia relazionale nel medioevo (Henninger 1989, Davies 1992, limitatamente a Tommaso), circa l’ontologia delle relazioni (Wildman 2006) e circa l’impiego della nozione di relazione in ambito trinitario (Gunton 1997) e di riflessione sulla creazione (Vanhoozer 1997). Alla minor rilevanza della categoria di relazione per la teologia razionale, dunque, sembra opporsi una maggior rilevanza di essa nell’ambito della filosofia della teologia. Nel prossimo futuro si auspica che sia proprio la riflessione teologica ad offrire degli spunti e addirittura l’agenda per una ontologia della relazione.
Paolo Di Sia. Fisica quantistica, metafisica e teismo: interpretazioni, ontologie, riflessioni teologiche
La fisica moderna e contemporanea poggia su due grandi pilastri: la teoria della relatività di Einstein e la fisica quantistica. La prima descrive fondamentalmente il macrocosmo, la seconda il microcosmo. Con la relatività abbiamo assistito ad una rivoluzione dei concetti di spazio e tempo, con la fisica quantistica si sono scoperti e si stanno scoprendo fenomeni davvero inusuali, bizzarri, fuori da ogni logica classica, con tutto ciò che questo comporta a livello ontologico sulla natura della realtà. Le caratteristiche della meccanica quantistica sono viste come “sconcertanti” da una parte, ma anche dall'altra come una risorsa da sviluppare piuttosto che un problema da risolvere. Essa infatti non solo ha dato origine a enigmi interpretativi, ma anche a nuovi concetti in computazione e nella teoria dell'informazione.
In questo intervento, dopo una breve introduzione generale alla fisica quantistica e ai suoi concetti chiave, si focalizzerà l'attenzione in particolare sulle sue diverse interpretazioni, su concetti-problemi cosmologici (buchi neri, inizio-creazione dell'universo, multiverso, fine-tuning, principio antropico), il concetto di anima, il caso-intenzionalità, computazione quantistica, entanglement.
Elisa Freschi. Dio non senza qualità: l’imprescindibile relazione fra Dio e sue qualificazioni nel pensiero teologico indiano.
Fra le varie ontologie presenti nel pensiero dell’India classica (300 a.C–1300 d.C.), possiamo distinguere alcune tendenze fondamentali:
1. empirismo, in cui le sostanze sono necessariamente considerate plurali (rappresentato, fra l’altro, dalle scuole del Giainismo, della Mīmāṃsā, del Nyāya e del Vaiśeṣika)
2. idealismo, con le due sottocorrenti principali:
(a) illusionismo soggettivistico, per il quale non esiste altro che un flusso di conoscenze (con esiti di solipsismo) (Buddhismo Vijñānavāda);
(b) illusionismo semidualista, per cui il mondo in cui crediamo di vivere è solo un’illusione, cui si oppone una realtà assoluta, il brahman (Advaita Vedānta).
3. panenteismo, in cui il brahman è considerato causa ultima, ma anche materiale del mondo, con le due sottocorrenti principali che seguono:
(a) il mondo dipende dal brahman come suo supporto, ma è diverso da esso (Dvaita Vedānta);
(b) ogni aspetto del mondo non è che una qualificazione del brahman (Viśiṣṭādvaita Vedānta).
Dopo un’introduzione che tracci il contesto del dibattito indiano sopra elencato e in particolare a riguardo del tema di sostanze e attributi, la presente relazione si concentrerà sull’ultima scuola citata, il Viśiṣṭādvaita Vedānta (letteralmente ‘Vedānta che sostiene un monismo qualificato’). Particolare attenzione sarà dedicata alla relazione fra il brahman —inteso dalla scuola come un Dio personale— e mondo, e soprattutto a quella fra il brahman e i suoi attributi. La scuola si oppone infatti all’Advaita Vedānta, per il quale esiste in senso assoluto un’unica realtà, il brahman, il quale è pura consapevolezza (cit). La chiave di volta per giustificare l’esistenza ultima del mondo sta nel modificare il concetto di consapevolezza in senso intensionale, per cui il brahman è per il Viśiṣṭādvaita Vedānta non solo cosciente, ma sempre e comunque cosciente di qualcosa, ossia delle proprie qualificazioni, le quali rappresentano l’intero mondo, la cui esistenza è così fondata con la stessa necessità dell’esistenza del brahman-Dio.
Elisa Grimi. La natura relazionale dell’epistemologia in Von Hildebrand.
La fenomenologia realista si colloca in ambito contemporaneo come una proposta audace poiché ripone fiducia nella realtà. Principale portavoce di tale corrente è stato Dietrich Von Hildebrand, che proveniente dalla scuola di Husserl prese da questi le distanze dopo la pubblicazione delle Logische Untersuchungen e la relativa svolta in direzione dell'idealismo trascendentale. Nel suo capolavoro What is philosophy? Von Hildebrand elabora la sua epistemologia rintracciando nel taking cognizanze il punto di partenza di ogni conoscere. Il metodo filosofico per von Hildebrand deve portare a una conoscenza a priori, certa e necessaria. La chiarificazione delle condizioni della conoscenza a priori costituisce l'autentica innovazione portata da von Hildebrand alla fenomenologia. La conoscenza per von Hildebrand ha carattere relazionale. A partire dall'epistemologia, egli elabora un'etica e un'estetica. Focus di questo contributo sarà dunque quello di mostrare la struttura epistemologica del sapere in ordine ad una filosofia per l'uomo (vd. ultimo cap. What is Philosophy?, “Il significato di una filosofia per l'uomo”) e ad una teologia.
Mario Micheletti. La radicale alterità divina, la relazione Dio-mondo e il “teismo analogico”.
L’espressione “teismo analogico” è usata da John N. Findlay nell’articolo su “Mind” del 1949 in risposta alle critiche mosse al suo famoso articolo dell’anno precedente Can God’s Existence Be Disproved?, in cui, rovesciando l’unum argumentum anselmiano, aveva proposto una sorta di confutazione ontologica del teismo, che, mostrando l’impossibilità dell’esistenza divina implicava anche la negazione di un ateismo fattuale, contingente, sulla base di un criterio di adeguatezza di ‘Dio’, di una concezione appropriata della divinità in quanto oggetto adeguato di adorazione. Il contesto in cui quell’espressione è usata è paradossale. Findlay sostiene, infatti, che la vera obiezione al suo argomento sarebbe quella che mostrasse che non c’è alcuna importante differenza fra il suo tipo di ateismo e quello che chiama il “teismo analogico” dei suoi critici. Questa dimostrazione annullerebbe, infatti, la portata critica del suo argomento, perché il teismo analogico avrebbe il risultato di opporsi in modo appropriato all’idolatria e all’antropomorfismo, e non sarebbe necessario appellarsi all’ateismo logico. Perché questa tesi è paradossale, anche agli occhi di Findlay, il quale riconosce che il suo argomento suggerisce che c’è effettivamente una differenza importante fra le due posizioni? Perché ovviamente, il teismo “analogico” che fosse sostanzialmente indistinguibile dal suo ateismo necessario non sarebbe una forma di teismo né implicherebbe alcuna ‘analogia’. L’ateismo necessario sarebbe forse compatibile solo con una forma estrema di apofatismo che negasse qualsiasi possibilità di parlare significativamente di Dio, negando in particolare che abbia senso parlare di esistenza se non nella forma di un’esistenza contingente. Gli sviluppi successivi del pensiero di Findlay lo portano a riconoscere, con Hartshorne, che la sua stessa confutazione è rovesciabile, nel senso che se la realtà di Dio è possibile, allora è necessaria, ma il teismo finisce con l’assumere la forma di una teoria dell’Assoluto in cui, in mancanza di un’appropriata prospettiva analogica, il carattere personale di Dio e la relazione Creatore-creatura rimangono ugualmente problematici. Nella mia relazione mostro come l’esigenza di un teismo rispettoso di un criterio filosofico di adeguatezza per ‘Dio’ e nel contempo capace di rendere ragione della relazione analogica ma asimmetrica Dio-mondo sia presente nel quadro della recente filosofia analitica della religione, e specificamente nel contesto del cosiddetto ‘tomismo analitico’, in modo particolare nei contributi di Barry Miller e David Braine. In Miller il ricorso alla semplicità divina è richiesto dallo stesso argomento con cui si stabilisce la relazione di dipendenza degli enti contingenti dall’Ipsum esse per se subistens; esso contrasta sia col «vuoto alieno» offerto dalla teologia negativa sia con i rischi di univocità e di antropomorfismo impliciti in diversi approcci filosofici contemporanei. David Braine connette strettamente il carattere della contingenza con la dimensione temporale degli enti finiti. Questa implica il carattere composito delle cose, la distinzione fra ciò che esiste e la sua esistenza. Qualsiasi effetto è così composto. Solo ciò che è intrinsecamente inderivato può dare e sostenere l’esistenza. Alla radice di queste posizioni c’è, a mio avviso, quello che Brian Davies ha chiamato “the Existence Argument”, che può ricondursi alla distinzione di Tommaso d’Aquino fra essenza e atto di essere in tutti gli enti, con una sola possibile eccezione, per mostrare che tali enti dipendono da qualcosa d’altro per la loro esistenza, e che la causa non causata della loro esistenza è identica al suo atto di esistere. L’analogia è implicata dalla causalità della creazione. Tommaso fonda il carattere radicalmente causato e contingente di tutti gli enti finiti sulla distinzione della loro essenza dal loro actus essendi. Nulla, ad eccezione di Dio, può essere il suo actus essendi. L’essere di ogni cosa che esiste in un genere è differente dalla sua quiddità. Mi limito qui a suggerire che tali considerazioni, su cui, tra gli altri, insiste Wippel, non solo suppongono che, ovviamente, l’Essere sussistente e gli enti finiti non condividano l’esse commune e non si distinguano meramente per l’aggiunta all’esistenza dell’essenza, ma escludono rigorosamente ogni possibile univocità. Osservo inoltre che questo tipo di argomento, come ho mostrato altrove, offre ragioni specifiche alla critica della cosiddetta “brute fact defence”, della difesa ateistica dell’intrascendibilità dell’universo. Filosofi come Brian Davies e David Burrell sottolineano a loro volta, sempre rifacendosi a Tommaso d’Aquino l’aspetto di “grammatica logica” o la natura “formale” del discorso filosofico che, sottolineando la semplicità divina, mette in evidenza la radicale diversità di Dio dalle creature (Dio non è in un genere, non si possono assegnare genere e differenza specifica a Dio), di caratterizzare in modo unico la divinità, distinguendola radicalmente da tutto ciò che esiste fuori di essa e che tuttavia da essa deriva, di identificare Dio evitando di identificarlo, idolatricamente, allo stesso modo degli oggetti che si trovano all’interno dell’universo creato. Per Burrell l’unicità della relazione Dio/mondo, che implica la radicale alterità divina, esclude qualsiasi univocità e qualifica il discorso su Dio come analogico, laddove l’univocità può facilmente portare all’idolatria. La dottrina della semplicità divina, con le sue implicazioni filosofiche e teologiche, è difesa con argomenti diversi da diversi filosofi della religione, nel contesto analitico, come Stump, Kretzmann, Helm, Haldane, Vallicella, Leftow, Mann, Brower. I problemi relativi alla semplicità divina, soprattutto per le implicazioni riguardo all’eternità divina come intemporalità e riguardo alla relazione di Dio col mondo e con la storia, sono posti in rilievo soprattutto da quei filosofi della religione contemporanei che sono critici di taluni aspetti del teismo classico. Su tutti incombe comunque il problema, che ho sottolineato all’inizio, del rispetto dei criteri filosofici di adeguatezza per ‘Dio’, della sua ‘unicità’.
Sofia Vescovelli. Relazione e processo nella filosofia processuale.
Le riflessioni filosofiche del XX e XXI secolo, unite alle scoperte più recenti nel campo della fisica quantistica e della biologia, hanno comportato uno stravolgimento nel modo di concepire la relazione e il concetto stesso di soggetto. Ad una metafisica tradizionalmente incentrata sulla nozione di sostanza – che interpreta le relazioni tra enti alla stregua di mere interazioni esterne tra realtà sostanziali essenzialmente fisse ed immutabili – sempre più si sostituisce una metafisica della relazionalità intrinseca, in cui le relazioni sono ontologicamente precedenti al soggetto stesso e ne costituiscono l’origine e l’identità.
La filosofia del processo offre un’interpretazione della relazione ed una visione del mondo che può ben definirsi una cosmologia relazionale, in cui ogni ente è concepito come strutturalmente interrelato agli altri ed al cosmo e viene definito sulla base delle relazioni che lo determinano.
Scopo di questa comunicazione è indagare i risvolti del pensiero processuale nell’ambito dell’ontologia delle relazioni, con particolare attenzione sia alla dimensione filosofica (in rifermento soprattutto alle nozioni di pan-relazionalità e di processo) sia a quella religiosa-teologica; cercheremo, quindi, di esplorare la visione teologica presente nella filosofia processuale ed il tipo di cosmologia religiosa che ne consegue.